
[...cui segue un altrettanto modesto elogio del Liberalismo]
Mea culpa. Avrei dovuto essere più cauto, ma ci sono caduto. Ho incominciato una discussione nei dettagli del rapporto tra Islam e libertà (e così pure, qualche tempo fa, ho discusso con esempi puntuali il rapporto tra il Cattolicesimo e la libertà). E discutere nei dettagli significa stimolare la ricerca da parte dell’interlocutore di controesempi. Per un imam che ha pronunciato la
fatwa di morte contro Salman Rushdie ce n’è uno che lo ha ospitato in casa sua per proteggerlo. Per uno che non muove un dito contro l’infibulazione ce n’è uno che si sgola in senso contrario. E così via. Da noi, per un prete che tuona contro gli omosessuali ce n’è uno che ne auspica persino il riconoscimento legale (raro, ma possibile). Eccetera.
Mi soffermo ancora un paragrafo sulla mutilazione genitale femminile. Il persistere dell’infibulazione, così ragiono, si ha, dopotutto, in società permeate dall’Islam. Poiché questa usanza è ripugnante e crudele, ed inoltre non ha alcuna base scritturale (anzi, mi si ricorda che ci sono delle testimonianze in senso contrario nella tradizione quanto al comportamento del Profeta con le figlie), si suppone che, in una società, ripeto, pesantemente influenzata dalla religione, tale usanza dovrebbe essere scomparsa da un bel po’.
Se invece è rimasta (e rimane) così a lungo vuol dire che le autorità che più possono influire su di essa (ovvero, quelle religiose) si sono mosse pochino. E questo per insensibilità, credo - una insensibilità nei confronti della donna che (sospetto) è strutturale nell’Islam (come nelle sue religioni sorelle o sorellastre se vi aggrada). Poiché, dal punto di vista prettamente anatomico, ciò che caratterizza una donna è il possesso (
inter alia) di un vagina, se persiste una pratica volta a mutilarla e che peraltro si dimostra apportatrice di malattie e problemi meccanici (non parlo nemmeno del piacere della donna, se vi infastidisce: anche solo dell’unione procreativa), ebbene, se persiste una cosa del genere nonostante sia dolorosa e inutile, e tale sia stata per generazioni e generazioni di donne, occorre davvero che ci sia una gran bella dose di indifferenza e di inerzia ad ostacolarne l’abolizione. E ancor più responsabili sono quelle autorità religiose che hanno il potere di influenzare le opinioni e quindi i comportamenti. E
doppiamente responsabili se quella pratica va contro la religione.
Nel dibattito tra me e le due lettrici di fede islamica sembra emergere uno strano Islam. Siamo abituati, in Occidente, a parlare di Paesi islamici. Ora si scopre, discutendo con queste gentili interlocutrici, che
in realtà, quei Paesi, davvero “islamici” non sono, perché se lo fossero ben altri sarebbero i comportamenti e le leggi vigenti. Insomma, l’Islam sarebbe in qualche modo assente e presente. Se un comportamento è criticato lo si distacca immediatamente dalla religione dicendo “ma quello non è il vero Islam”. Bene, dico io, questo è consolante. Allora dobbiamo presupporre che l’Islam sia un atteggiamento tutto sommato a mal partito in quegli Stati (e sono tanti) dove si governa sulla base di una discendenza del Profeta e dove si accompagna al nome dello Stato medesimo l’aggettivo “Islamico”. Fin qui, in linea ipotetica, posso seguirvi. Se esiste una possibilità di tradurre l’Islam, nella politica, in modo che esso non vada necessariamente a braccetto con l’autoritarismo (ma ho i miei dubbi) e con una serie di pessimi usi come ad esempio la pena di morte, e l’oppressione dei non correligionari, ben venga. Ma, ripeto, a causa del contenuto del Corano (
in particolare quanto al centrale concetto di jihad, che consente anche un’interpretazione concreta e violenta) ho poca fiducia. Mi concederete almeno che in secoli di storia non se n’è avuta gran dimostrazione, di una simile possibilità.
Questo
gioco del rimpiattino (“Sì, quel comportamento X è orribile! Ma non è vero Islam / Cristianesimo / Ebraismo / Comunismo, si ricorda infatti il caso di quel musulmano / cristiano / ebreo / comunista che fece / disse esattamente il contrario di X…”)
vale per tutte le fedi. Non si finisce più (per quanto, ripeto, poi la somma totale delle responsabilità storiche parli a sfavore delle religioni).
Sono ancora disposto a discutere nei dettagli i singoli comportamenti, i singoli versetti e le singole interpretazioni. Ma per oggi lasciamo in un angolo questo tira-e-molla e vediamo anche la cosa da un paio di altre prospettive. Quella individuale innanzitutto.
La religione ha senza dubbio un ruolo importante per la spiritualità del singolo, per il suo equilibrio. Le nostre lettrici hanno menzionato il sollievo che una conversione, l’abbracciare una fede, comporta. E io capisco profondamente questi sentimenti, e ancor di più quelli di smarrimento e angoscia che li hanno preceduti e per questo li rispetto.
Una fede dà grande forza. Sicuramente sono più serene le giornate di chi crede a un Essere Superiore che vede e provvede, di chi confida nella giustizia ultima o di chi è convinto della sopravvivenza individuale dell'anima dopo la morte.
Solo che la fede dà una forza eccessiva. Poiché si tratta, in origine, del rapporto individuale con un Essere Superiore,
si finisce col legittimare tutto quello che a quell’Essere, alle Sue parole, è fatto risalire. Parole che però si contraddicono, o tra religione e religione o all’interno di una stessa religione quando vi sono nei testi sacri diverse interpretazioni possibili (e dove non ci sono?). Nonostante questo (e passiamo dalla prospettiva individuale a quella collettiva) si comincia col tracciare una linea tra fedele e infedele, la linea diventa dislivello di valori, e poi ci si sente giustificati ad ammazzare o almeno opprimere e disprezzare il secondo. E’ spesso stato detto, riprendendo una citazione (male interpretata) di Dostoevskij, che l’ateismo è da rifiutare perché, senza Dio, tutto è possibile. Acutamente ha fatto invece osservare un filosofo francese contemporaneo che,
proprio perché c’è Dio tutto diventa possibile. Dire
Deus vult, ma sha’ Allah diventa la coperta per coprire ogni nefandezza e il cemento per consolidare ogni
status quo nocivo a qualcuno, singoli o cateogorie.
La religione crea anche delle affinità elettive spiacevoli (per usare un
understatement). La nostra giovane lettrice e interlocutrice Asyia Fatima è assai verosimilmente una persona amabile e gentile, ma sul suo blog troviamo anche spazio per Osama bin Laden, che, indubbiamente, non è una figura equilibrata ed innocua. Qualche tempo fa un nostro lettore cattolico, che certamente è lungi dall’auspicare guerre coloniali o espulsione delle comunità giudaiche, si dimostrava indulgente verso un movimento che mischia cattolicesimo (poco) e fascismo (tanto) perché in fondo si tratta di correligionari.
E ancora. Si può anche pensare che l’11 settembre non sia un avvenimento di matrice prettamente religiosa, che sia un avvenimento bellico (e quindi politico) con una patina islamica, ma di sicuro, se qualcuno ha avuto lo scellerato fegato di schiantarsi contro un grattacielo facendo fuori molte alte persone è perché era estremamente convinto di trovare qualcosa di meraviglioso dopo la morte. E del pari,
se credessero un po’ meno all’immortalità dell’anima e al paradiso, molti meno giovani e ignoranti soldati americani partirebbero per andare a sparare agli abitanti di Paesi che non saprebbero trovare su una cartina muta. Lo so che suona idealistico, ma forse le guerre come quella in Iraq si fermerebbero, nonostante le altissime paghe, se ci fosse una sorta di obiezione di massa dovuta alla paura di perdere, insieme alla pelle, davvero tutto quello che c’è da perdere.
Le religioni ci dicono sì che l’essere umano è debole e fallibile, in confronto all’Essere Supremo, ma poi ahimè legittimano tutte le azioni che, da parte di quell’umano debole e fallibile, sono perpetrate in nome dell’Essere Supremo stesso. Non importa che ci sia un’autorità centrale (come il Papa) o che ce ne siano tante (come i saggi dell’islam - il che è anche peggio perché aumenta la confusione), quel che conta è che, nel nome di Dio, quelle autorità non si smuovono di un millimetro. Dio diventa lo strumento di qualunque irrigidimento dottrinario.
In questo senso, anche i concetti di bontà, tolleranza e libertà che sono ricavati dalle religioni e vissuti dai loro rappresentanti sono, ancorché di fatto positivi, comunque distorti, malati. Il liberalismo arriva ad un concetto di rispetto che è di ben altra fattura. Occorre dare spazio ad ognuno perché, ciascuno, potenzialmente, potrebbe avere ragione, fallibili e deboli come siamo. Che ciascuno sia ascoltato, che ciascuno contribuisca, che nessuno ammazzi od opprima nessuno in nome della propria posizione. Per dirla con von Hayek “La libertà è l’essenziale per far posto all’imprevedibile e all’impredicibile; ne abbiamo bisogno perché, come abbiamo imparato, da essa nascono le occasioni per raggiungere molti dei nostri obiettivi.
Siccome ogni individuo sa poco, e, in particolare, raramente sa chi di noi sa fare meglio, ci affidiamo agli sforzi indipendenti e concorrenti dei molti per propiziare la nascita di quel che desidereremo quando lo vedremo” [1].
E’ un ragionamento con un fondo di apprezzamento per la probabilità: occorre che cento scuole fioriscano e si confrontino non per poi poterle meglio schiacciare (come fece in Cina chi si servì di questa metafora), ma perché umilmente si riconosce che ciascun altro potrebbe avere ragione e più si contribuisce più si innalzano le possibilità di miglioramento.
E’ un apprezzamento della collaborazione, del reciproco aiuto, superiore, paradossalmente, a quello del comunismo. E le scuole saranno tante e si contraddiranno, forse, come i teologi e i saggi delle religioni: ma nessuna sarà legittimata ad accoltellare o emarginare gli appartenenti ad un’altra. Ci troviamo a condividere la bizzarra e forse anche triste condizione umana. Vediamo di ascoltarci, di darci possibilmente una mano, e che nessuno ci dica che il suo rapporto individuale con un Essere Superiore (che potrebbe anche esistere, chissà) lo autorizza a pesare anche solo un grammo di più degli altri.
Il comunismo non parla di Dio, ma
non si rende nemmeno conto della fallibilità e limitatezza dell’essere umano come suo tratto essenziale (infatti prevede una specie di paradisiaca fine della storia), così poi si trova in imbarazzo a spiegare perché manifestazioni storiche presentatesi come comuniste sono fallite o deviate.
Il liberalismo riconosce invece che siamo fatti di un legno duro e storto, difficile a foggiarsi, ed
evita ogni culto della personalità o della super-personalità, pertanto non ha imbarazzi nemmeno a riconoscere che ci possono essere (e vanno combattute!) proprie forme deviate o pretestuose in cui di “liberalismo” c’è solo il nome. E non le scusa perché in fondo c’è una somiglianza almeno verbale o una lontana parentela.
Valete.
[1] Friedrich A. von Hayek,
La società libera , cit. in D. Antiseri,
Prefazione a F.A. von Hayek,
Individualismo: quello vero e quello falso, Rubbettino 1997 (ed. italiana di
Individualism: true and false, 1949), p. 29.
{Sì, Beiderbecke, te lo restituirò, vedi bene però che ne ho fatto tesoro!}