Vorrei partire da una considerazione apparsa in un recentissimo commento di un nostro (DEL nostro?) lettore piu' critico – e gradito.
"Una cosa ho da dire circa "il tuo diritto di proprietà assoluto" sulla vita. Se c'è una cosa non vera è proprio questa, tu nasci senza volerlo, muori quando non lo decidi tu e anche se non lo vuoi tu, ti può capitare di tutto senza che tu minimamente lo desideri, anzi. Come fai a dire che hai la proprietà assoluta, di che cosa?"
Questa argomentazione, riassumo per chi non abbia tempo e voglia di andarsi a rileggere il contesto, e' stata sollevata contro una brevissima menzione fatta da Beiderbecke del diritto di proprieta' assoluto che si ha sulla propria esistenza, diritto che e' portato a giustificazione dell' eutanasia. Con l'argomentazione riassunta in quelle righe si dovrebbe appunto spazzare via il fondamento concettuale della apologia dell'eutanasia.
Non ho intenzione di parlare dell'eutanasia in se' e per se', tema delicato, inevitabile e amaro. Ma voglio mostrare, in poche e chiare righe se possibile, che quella argomentazione e' pericolosissima dal punto di vista teoretico per un cattolico quale il nostro lettore (e quali i piu' convinti detrattori dell'eutanasia).
Ebbene si'. Nasciamo senza chiederlo e moriamo contro la nostra volonta' (anche se il primo caso e' piu' chiaro del secondo: giusto o sbagliato che sia dal punto di vista morale, ci sono persone che muoiono, infatti, per loro volonta'). Questa oscurita' della nostra provenienza e della nostra destinazione, che tocca ciascuno, e' un punto che molti filosofi hanno definito a fondo, meglio di quanto noi in questa sede non possiamo fare, e che peraltro anche una mente non avvezza alla filosofia puo' ben facilmente afferrare. L'idea della "non-proprieta' di noi stessi" si concilia, curiosamente, tanto con una filosofia dell' assurdo, atea e negatrice della immortalita' dell' anima (perche' vivere e dare un senso alle cose, se tutti ci attende una sola infinita notte?) quanto con il Cristianesimo (attenti, poiche' non sapete ne' il giorno ne' l' ora – il Signore verra' come un ladro nella notte – tutto e' in mano a Dio, anche i capelli del nostro capo sono contati, e noi anche sforzandoci non potremmo prolungare di un minuto la nostra vita [ho citato non alla lettera, e a casaccio, ma cf. Mc 13, 37; I Tess. 5,4; Mt 10, 30]).
Ma se partiamo dalla constatazione che nulla e' in nostra proprietà (o, ripeto, perche' e' in mano al caso, o perche' e' in mano a Dio le cui vie sono infinite e i giudizi imperscrutabili), allora ne dobbiamo derivare, caro lettore (e cari tutti i quali siano stati tentati da un simile argomento), non tanto una confutazione della eutanasia (o dell' aborto) quanto una dimostrazione dell'assurdita' dell'azione in toto. Se tutto e' assurdo, o se di tutto e' padrone Dio, tanto vale fermarci e non fare piu' nulla. Ma l' azione e' essenziale. Da un punto di vista biologico e' inevitabile: se un animale si fermasse a meditare sulla insensatezza del vivere (ma in realta' solo l' uomo ha questa prerogativa), un predatore lo mangerebbe (un uomo, protetto com' e', generalmente, da quattro mura, per lo meno morirebbe di inedia). Se un cristiano si adagia nel fatalismo, allora, o abbraccia una dottrina della predestinazione (possibile opzione sostenuta in ambito protestante – ma anche quelli non e' che poi si bloccassero a far nulla) o, di fatto, contraddice il proprio operare per ottenere la grazia agli occhi di Dio, come dogma e come prassi.
Infatti, non esiste un fatalismo perfetto. Non esiste e non puo' esistere. Agiamo, facciamo, ci muoviamo (almeno in un ambito della nostra vita) come se quella latente insensatezza non ci fosse. Questa la caratteristica principe non dico dell' umanita' intera in ogni tempo e luogo ma almeno della civilta' occidentale: la capacita', pur potendo pensare (avvertire?) il nulla, di darsi all'essere. Di far sorgere uno spazio delle ragioni, dei concetti (e mi scuso se per alcune orecchie questo e' troppo filosofico ovvero astruso).
Ora: tra questi concetti vi sono quelli di individuo, di vita e di proprieta'. Si DEVE dire che essi vanno insieme: e cioe' che ciascuno ha la proprieta' della propria vita (e regolarsi, nello stabilire leggi, di conseguenza). Se si dice che l'individuo non e' padrone della propria vita, si deve giustificare questa asserzione o cadendo nel totale fatalismo dell'insensatezza (posizione non infondata, si badi, e' anche la mia, confesso, nei momenti peggiori -ma allora, signori, non ha piu' senso nemmeno che leggiate queste righe) o dicendo che di tutto e' padrone Dio. Ma se Dio e' padrone di tutto –veramente tutto: e di 'parte' non puo' esserlo, perche' allora sarebbe limitato ed anche questo non e' cristiano- allora si deve scivolare nell'inazione per non offenderlo con la nostra ingerenza. Inazione che, da un lato, contraddice la dottrina della salvezza mediante il proprio comportamento e che, dall' altro, in ogni caso non trovo riflessa nemmeno nella condotta degli uomini di chiesa attuale; per fare un esempio banale, ma buono perche' tristemente presente alla memoria di tutti, Giovanni Paolo II e' stato tenuto in vita (nonostante lo minacciasse un decadimento del tutto 'naturale') da delle macchine. Stava usurpando il diritto di disporre di quel corpo, di quella vita?
Non si pensa, di primo acchito, ad applicare il discorso dell'eutanasia alla terapia: ma ha la medesima forma. Qualcuno potrebbe dire (qualcuno dice): il caso della terapia e' opposto, in quanto, si coopera alla vita e cosi' facendo si coopera con Dio che la vita sostiene. No - non mi oppongo a priori, ma la questione non fila teoreticamente cosi' liscia come desiderereste: a parte il fatto che "cooperare con Dio" e' un giudizio che cela in se' una gran presunzione, e che porta a limitare la potenza di Dio (si co-opera solo con qualcosa o qualcuno la cui azione e' incompleta, infatti, ed i cui piani siano chiari), ma qui si sta scivolando surrettiziamente al concetto di vita come "opposta alla morte" da quello di vita nel complesso – come progetto di una singola esistenza; e nel progetto che e' in mano a Dio (se e' in mano a Dio) ci sta benissimo un limite alla prima che non e' in nostro diritto nemmeno tentare di prolungare. (Si scopre cosi' che nel fatalismo coerente la rovina della classe medica e' in agguato…) Se poi volete supportare su base evangelica il prolungamento in tutto e per tutto delle cure atte a continuare la vita come assenza di morte, come se questo tema fosse inequivocabilmente affrontato, come se un giudizio al proposito fosse univocamente deducibile dale parole del Signore, auguri - stiracchiate pure le parole di Gesu', il quale ha lui stesso oscillato, davanti alla prospettiva della morte e della sofferenza, tra il desiderio dell' allontanamento dell'amaro calice e l'abbandono alla Volonta' del Padre [cf. Mt 26,41].
Si potrebbe ancora dire: d' accordo, e' teoreticamente fondato parlare di proprieta' della vita: ma chi dice che poi di questa debba disporre l' individuo e non qualcun' altro? Su questo punto sono ben sicuro. Se proprieta' e' un predicato lecitamente applicabile alla vita individuale, nessun altro se non l'individuo stesso deve essere colui che e' concepito come in grado di disporne. Se cosi' non fosse (ovvero: se si dicesse che qualcun altro –qualche altro essere umano, in questo caso) ne dispone, le conseguenze sarebbero ripugnanti, e non e' necessaria la filosofia a capire quanto.
Se non sono d'altri, io sono mio, dunque. E ricevo questa proprieta' con timore e tremore.
Valete.