lunedì, agosto 27, 2007

Di un molto ammirevole zelo marxista e dei suoi difetti




In viaggio verso lontani e maomettani lidi (gli stessi da cui vi scrivo dopo lungo indaffarato silenzio, e che altre righe mi dettano - righe che presto o tardi leggerete) mi è capitato di compiere un tratto di strada seduto in treno dinanzi ad un giovane e preparato filosofo marxista diretto alle meritate vacanze. E di conversare piacevolmente con lui.

Questo giovane, già mio consigliere di stimolanti letture, è, ve lo dico subito, inattaccabile dalle critiche istintive che gli allergici al termine “marxista” potrebbero avere cominciato ad affilare nella mente al solo leggere l’aggettivo. Egli vanta una conoscenza non comune della Filosofia tutta; in lui Marx non è fugace lettura liceale o slogan da squatter (1). Conosce la Storia, il mio amico e inoltre, vista l’età, dalla adesione a quella filosofia non ha (per lo meno non ancora) ricavato prebende, scranni, strapuntini o pouf qualsivoglia; non lo spiazzereste con argomenti ad personam, è marxista di cuore e di mente, e la mente è ben nutrita. E non sostiene nemmeno il governicchio in carica, né professa sconfinata stima per una delle figurette politiche vigenti. E’ marxista punto e basta.

Sosteneva dunque il mio amico che la definizione che Marx diede dell’uomo come animale che crea con il lavoro le proprie condizioni di sussistenza è la migliore possibile, sul millenario mercato della filosofia. La spunta anche su quelle che individuano la caratteristica essenziale dell’uomo nel possesso del linguaggio, ad esempio, o del concetto di Dio. L’uomo si distingue per il lavoro. I successivi punti essenziali della filosofia marxista li conosciamo, se li abbiamo studiati al Liceo o almeno orecchiati altrove, magari sulle pagine dell‘Unità. Li accenno un po’ da Bignami (esponendomi a critiche di sciatteria, ma tant’è - ogni correzione poi è gradita, nell‘impresa collettiva del sapere). Chi possiede i mezzi di produzione esercita un dominio sull’altrui persona; questo è appunto ciò che è avvenuto ed avviene nella Storia, che è fondamentalmente storia di lotte di classe e che (“è tempo di cambiare il mondo!”) può, deve essere presa in mano per arrivare ad una società senza classi, in cui ciascuno può esprimere appieno la propria umanità senza doversi alienare.

Come in tutte le storie ci sono i cattivi, e hanno degli strumenti con cui combattono chi a loro si oppone. I cattivi sono quelli che tengono per sé gli strumenti di produzione. Le intuizioni marxiste di base, che dovrebbero stimolarci alla lotta verso la società perfetta, sono state ostacolate, e lo sono tuttora, da una serie di mentali bastoni tra le ruote, i rallentamenti ideologici, che i cattivi sanno ben usare a proprio vantaggio: come tutte le filosofie che giustificano lo status quo, o come il concetto di Dio, oppiaceo e consolatorio, o come la tentazione della società consumistica (per chi ancora non c’è), o come infine il crogiolarsi in essa (per chi già c’è) - e così via.

Ma come, quando e dove arriverà codesta società senza classi? Non ci sono già stati grandi esperimenti in tal senso, e non sono miseramente falliti? E quali altri si considerano ancora in cammino? Che io ricordi, a dichiararsi comunisti (oltre a qualche quotidiano, si intende) ci sono una piccola isola caraibica dai paradisiaci panorami, fonte anche di facile (e a volte turpe e illegale) sollazzo per i lombi altrimenti privi di mercato di squallidi turisti più che brizzolati. E poi il Paese di Mezzo che tanti ristoranti ed ambulanti a noi largisce. E anche quelli sono in dubbio.

Ma il mio amico non fa una piega. L’isola del Grigiobarbato ora lungodegente è stata soffocata nelle sue potenzialità da un formidabile strumento che ha drammaticamente falsato i risultati: il bloqueo. D’accordo, te la passo. Non si può distribuire a tutti la miseria, miseria ahinoi indotta. Ma il Fu Celeste Impero, da sì lungo tratto laccato in rosso? Lui mi dice che lì, lì invece le cose stanno funzionando. Lo so io, per esempio, chi è il Primo Ministro cinese? Butto lì imbarazzato un “Hu Jintao” (Mi ricordo infatti la barzelletta su Bush e “Condy, Who’s China’s Prime Minister?” “Who” - etc.). “No” - mi dice trionfante l’amico (senza specificare poi chi è, ma io penso lo stesso: “Ahi, touché”). “Vedi, questo intanto è già un segno del superamento del culto della personalità, che tanto fu criticato”. Laggiù -riassumo il suo discorso seguente- c’è un gran lavoro collettivo. Nelle alte sfere e nelle basse. L’operaio semplice sgobba come un mulo notte e dì anche se sa che lui, personalmente, non arriverà a vedere la nuova e definitiva società, ma perché altri ne godano - ha coscienza di classe che gli fa trascendere l‘individualità. E chi è in alto dal canto suo oggi sta al timone ma è pronto a dismettere il potere, un domani. Il grandioso esperimento di umanità è ancora in corso, altro che deriva capitalistica. Sì, ci sono metodi capitalistici, ma è come la NEP di Lenin, sono strategici, non sono cedimenti: non avrebbe senso per ora abolire ora le classi e dare a tutti in egual misura quel poco che c’è, aspetta però che i granai siano colmi e poi vedrai che le classi spariscono.

E la gente tutta ne è cosciente: tanto è vero che se parli con un cinese dei tanti che, silenziosi, punteggiano la popolazione studentesca della Università tedesca dove anche lui vive, ti dirà che conosce un solo filosofo, il Karl, e ostenterà grande orgoglio nazionale, profonda consapevolezza del grandioso progetto di cui è parte. Argomento deboluccio, questo, penso io - anche il mio bisnonno avrebbe forse scambiato, se proprio, su stimolo dell’interlocutore, il discorso si fosse innalzato un poco di più degli affari quotidiani, quattro ammirate parole sul Duce, e allora? Necessario segno d‘intimo convincimento o risultato d‘indottrinamento? Risposta facile. (Il mio amico ha peraltro pure l’onestà di dirmi che le sue posizioni sulla Cina non sono condivise da tutti coloro i quali si definiscono, oggi, in Italia, “comunisti”).

Interessante punto di vista, quello marxista, nel complesso. Innanzitutto è fedeltà a una linea di pensiero in un mondo dove tutt’al più la gente è fedele a una squadra di pallone, quindi lo ammiro. Mi turba anche un po’. Innanzitutto usandolo come lente per leggere me stesso e il mio ruolo sociale. Non faccio parte della catena produttiva. Ho sempre pensato che la filosofia di cui mi occupo io (paccottiglia logico-formale) sia sterile, e ora, ricordare, attraverso le parole del mio amico, quel che Marx dice dell’ideologia, delle idee che son create dalle condizioni economiche e che a volte servono per anestetizzare la critica alle sperequazioni mi fa venire in mente che gran parte dei miei interessi culturali (interessi, appunto!) potrebbe anche essere questione di dominio ideologico sulla mia mente: giovane, energico cervello che potrebbe dedicarsi (insieme al corpo ch’esso comanda) a più nobili cause, e che invece s’accartoccia su questioni di lana caprina mascherate da domande profonde, fintanto che la pancia, a scapito d’altri, è piena. E lo stesso potrebbe dirsi dei miei turbamenti su Dio e l‘aldilà (questi ultimi espressione, in particolare, di un egoismo personale). Sono in certo modo la versione postmoderna del Tartufo, io.

E ancora, per passare dal singolo ai tanti: l’idea del lavoro, e quella della lotta come chiave di lettura della storia sono un colpo di genio, e di immensa portata teoretica. Abbracciare il pensiero di Marx anche solo fino a questo punto comporta avere un formidabile strumento critico (e autocritico) a disposizione. Fin qui ammiro e son tentato di aderire, ovvero di servirmi dei concetti in questione, almeno in prova.

Ma -controbatto io dopo compunto rimuginare- il fallimento di grandi esperimenti comunisti non dovrebbe instillare nei giovani marxisti preparati (ovvero conoscitori della Storia) un po’ di pessimismo? Ossia: si può arrivare a pensare che Marx aveva sì ragione, ma al tempo stesso le forze che intralciano il raggiungimento della meta (tentazione capitalistica, bassi egoismi, opposizioni deliberate) son soverchianti. Insomma, una diagnosi non può esser correttissima, impeccabile anche se poi purtroppo è di incurabilità? No, dice il mio amico (e qui si rabbuia un po’), la categoria di pessimismo è “antistorica”. Anche quella di fallimento.

Ce ne andiamo salutandoci cordialmente, ognuno per la sua strada, felici d'avere alleviato le ore di viaggio con la compagnia.

Tuttavia nella mia testa non finisce qui, continuo a rimuginare. Mettiamo pure da parte fallimenti e pessimismi, se sono antistorici (qualunque cosa ciò significhi). Supponiamo che da qualche parte si arrivi a che i granai siano colmi. Che la classe dirigente (del Paese di Mezzo, o di qualunque altro abbia preso il leonino pensatore di Trier a suo nume e lume) sfugga alle tentazioni del potere per il potere, che insomma tutto fili liscio dal punto di vista ideologico ed economico. Tutti son convinti e tesi allo sforzo. Ma come faranno ad abolire le classi? Forse potranno parificare gli stipendi, questo sì. Ma le competenze per mantenere funzionante una centrale atomica, per insegnare matematica e per seminare ségala non saranno interscambiabili. Non si potranno redistribuire. Non si potranno spalmare sulla popolazione, ciascuno a turno lunedì al reattore, poi martedì alla scuola del villaggio di campagna a inculcar tabelline ai marmocchi e mercoledì a seminare sementi - e daccapo. Mentre centrali atomiche, due per tre e campi di segala continueranno invariabilmente e freddamente a servire, ignari delle trasformazioni sociali. E allora alcuni continueranno a menare una vitaccia da cani, altri una vita così così e altri staranno benissimo. Se ci sarà elevatissima giustizia sociale d’accordo, welfare in tutte le sue accezioni, d’accordo, senso dello Stato, d’accordo - ma dove sarà l’assenza di classi, a parte nel salario?

E poi, mi sta bene che Dio e perturbante compagnia possano essere usati ideologicamente, come oppiacei, che il pessimismo, che l’evocazione limiti dell’essere umano siano in parte il risultato di una falsificazione atta a frustrare sul nascere l’azione levatrice del cambiamento, ma, meine Damen und Herren, negheremo forse che l’essere umano, in qualsivoglia tempo, dovrà morire, senza sapere come e quando - e che ne avrà paura terribile? E che dovrà dormire un certo numero di ore a notte? E che avrà fame e sete? E che farà, sit venia verbis, cacca e pipì? E che ci metterà un certo tempo e un certo sforzo ad imparare qualcosa, che sia il due per tre, il Capitale o il manuale di manutenzione della centrale nucleare? Tutte cose necessarie per ciascuno, ma in diverse misure a seconda dell’individuo - e queste diverse misure orienteranno diversi comportamenti, che tireranno in diverse direzioni. E non dimentichiamo poi l’aleatorietà dell’attrazione sessuale - se siamo abbastanza disillusi da non voler parlare dell’innamoramento! E gelosie, e invidie e concorrenze, che certe pulsioni si tirano appresso. Non esagerava, Dante, a dire che l’amore muove il sole e l’altre stelle, anche se ne aveva un concetto troppo rarefatto e cristallino, non ancora macchiato da Freud. Qui come si interviene? Si introduce una rotazione degli amplessi, magari con qualche incursione in quelli omosessuali, per essere sicuri che ciascuno sia appagato appieno?

Come abolire i limiti, i fattori di egoismo, di infelicità individuale o di disparità derivanti dal fatto che l‘uomo non è pura testa d‘angelo? Forse con giochi da Prometeo? Dobbiamo però evitare la manipolazione genetica, se non altro per una questione di continuità: se parificheremo economicamente una popolazione di nuovi esseri uniformi ottenuti in laboratorio, quel succitato operaio, ormai sottoterra, poveraccio, non avrà sgobbato per un paffuto pronipote, ma per il risultato, da lui inimmaginabile, di qualche nuovo rimescolamento del suo DNA, grato più a provetta e siringa che alla memoria dello stakanovista avo.

E allora come altrimenti spianeremo le bozze strutturali dell’essere umano? Con l’educazione elementare? Con una rivoluzione culturale? O con un decreto si dichiarano decaduti e nemici del popolo cuore, tubo digerente e genitali coi loro reazionari capricci, per poi fucilarli in piazza insieme ai loro portatori?

Conclusione. Io ammiro lo zelo marxista, o comunista, se ben argomentato. Davvero. Fornisce un grande acume critico, che ben può agire da solvente di molte micidiali tentazioni alla pigrizia intellettuale. Chi è contro, chi non dà per scontato, chi combatte l’ovvio è amico mio. Ma il marxismo, nel momento in cui dimentica la complessità e limitatezza dell’uomo, cade in un peccato filosofico prima e pratico poi peggiore di quello della inerte pura teoreticità che il suo acutissimo e ammirevole Padre stigmatizzava: l’ipersemplificazione. Che può essere peggiore dell’inerzia. E che è cugina della deformazione (perché poi è facile scivolare nella machiavelliana apologia delle efferatezze che in nome della Repubblica Popolare si compiono, quando si è convinti che quella è sulla strada giusta per la società perfetta - posto che non sia tutta disinformazione mediatica dei nostri Stati, s‘intende). La deformazione, che è come dire la sorella brutta e cattiva dell’inerzia, e siam da capo o peggio.

Proposito. Io non voglio essere tra quelli che coltivano solo il loro giardino. E nemmeno voglio essere di quelli che la peste se li porta via mentre stanno lì a grattarsi la zucca chiedendosi se sia sostanza o accidente. Sono d’accordo che la storia è storia di lotta, e sono quasi disposto a dire che lo è di classi. E preferisco credere, visto anche che la statistica anagrafica mi dice (o mi illude, il che è lo stesso) di avere davanti a me ancora un pezzettino di Storia da vedere standoci dentro fino alle orecchie, che la si può correggere, se non davvero guidare, per stare tutti meglio. Ma non chiedetemi di credere alla società senza classi come meta. Con buona pace del mio amico marxista di cuore e di mente.

Dubbio interiore finale. E tu credi di liquidare in cuor tuo il marxismo così? Con qualche riga semiseria? E volumi e volumi di pagine pro, e di altri più nobili tentativi contra? No, non mi illudo, macché, siam solo nella blogosfera, io non sono né vero antidoto a quelli né alla pari di questi, lo so. Però chi lo ha detto che la verità debba essere lungamente argomentata con cupo cipiglio in rotoli e rotoli atti a stipar biblioteche? Golia lo ammazzò Davide. Valete.


(1) Già, “squatter”! Ricordate? Parola vecchia, poi obliata riverniciando con un nobilitante “no global” la gente che essa definiva.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Sono tornato Herbert. Un saluto!